Immagine di Rolando Nannicini
Antifascista convinto, durante il ventennio fu attivo a Prato soprattutto nell'organizzazione del soccorso rosso. Nel 1942 venne condannato a due anni di confino da scontare nel paese di Latronico, in provincia di Potenza. Divenuto imprenditore, nel dopoguerra aiutò molti latronichesi assumendoli nella propria azienda.

C’è un legame tra le comunità di Prato e Latronico, in Basilicata, che scorre sui binari della memoria. Un rapporto che affonda le proprie radici nelle persecuzioni del ventennio fascista, ma ha poi saputo svilupparsi attraverso quasi un secolo di storia attorno ai valori della solidarietà e dell’amicizia.

A collegare Prato e Latronico c’è un nome, quello di Rolando Nannicini, operaio tessile nato sulle rive del Bisenzio il 21 giugno 1911, che nel 1942 venne condannato a due anni di confino da trascorrere nel piccolo paese lucano, situato nel parco nazionale del Pollino.

Nannicini incarnava a suo modo il profilo di un antifascista pratese dei primi anni quaranta: abitava nell’immediata periferia cittadina, a Galciana, lavorava come tessitore, presso il lanificio Sbraci in via Ferrucci, militava nelle file del Partito comunista, partecipando alla raccolta di fondi e alla gestione del “soccorso rosso” in città. Per la sua attività clandestina alla fine del 1941 venne deferito dall’Ovra alla Questura e poi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato assieme ad altri 53 antifascisti attivi a Prato. Il 19 febbraio 1942 la Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia ne predispose l’allontanamento coatto dal domicilio. Sede del confino: Latronico, in provincia di Potenza. Pochi giorni dopo la moglie Valeria Gori, anche lei operaia, dette alla luce una bambina.

A Latronico Nannicini intrecciò ottimi rapporti con altri condannati al confino e soprattutto con gli abitanti del paese. In seguito alla caduta del fascismo del 25 luglio 1943, grazie anche all’interessamento di alcune autorità locali, Rolando Nannicini ottenne una riduzione della pena e il 24 agosto tornò a Prato. Dopo un anno e mezzo di confino poté riabbracciare la famiglia e riprendere il suo lavoro di operaio.

Rimase nel centro laniero anche nel dopoguerra e alla fine degli anni cinquanta aprì una propria rivendita di tessuti, ma non dimenticò la gentilezza dei cittadini di Latronico. Consapevole delle difficoltà economiche e della diffusa disoccupazione che segnavano il paese lucano, appena ne ebbe la possibilità chiese ad alcuni latronichesi di andare a lavorare per lui, dando così inizio a un flusso migratorio che nel corso del tempo si è ingrandito e ha portato molte famiglie di Latronico a stabilirsi a Prato.

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